RISCOPRENDO LA STORIA SAPREMO UN GIORNO RITROVARE MOTIVI DI ORGOGLIO            


LETTERA A MARZIA
(Cinquant’anni e venti mesi) Scritta e pubblicata da Alberto Giovannini nel 1959
 
 
    Marzia carissima, domenica l’altra, al termine della puntata televisiva sui “Cinquant’anni di vita italiana”, in cui si descrivevano in termini raccapriccianti le vicende della Repubblica Sociale Italiana, tu hai chiesto, un po’ incredula e un po’ preoccupata: “-Ma papà era con quelli? ....”.
Sì Marzia, il tuo papà era con “quelli”, con i cattivi e perchè, nella tua mente bambina, non rimangano dubbi ti dice, ora, di essere orgoglioso di esserci stato, e ti assicura che, se dovesse tornare indietro nella vita, e trovarsi, con l’esperienza d’oggi, nelle identiche situazioni di allora, ci tornerebbe.
    I tuoi tredici anni scarsi ti permettono di afferrare e assorbire il succo velenoso di certe storie, ma ti impediscono di poter capire la storia. Tuttavia voglio dirti, non tanto per oggi, ma per il tempo abbastanza prossimo in cui alla storia, per forza di studi, dovrai avvicinarti, che ciò che la Televisione ha trasmesso (forse col recondito desiderio di far disprezzare centinaia di padri e di madri dai figli ignari) delle tragiche vicende Italiane tra il 1943 e il 1945, altro non è che il concentrato della vigliaccheria conformistica che impera nella nostra Patria.
    Tu non sai, cara Marzia, che molti tra quanti vorrebbero condannare tuo padre, in quanto colpevole di un delitto che gli Italiani difficilmente perdonano, quello della coerenza, vi sono coloro che gli furono Maestri e, quindi, coi loro scritti lo spinsero sulla strada che doveva condurlo nella Repubblica Sociale Italiana: e vi sono a migliaia, a centinaia di migliaia, a milioni i suoi compagni di un tempo, quelli cioè che dopo aver militato con lui, nel fascismo e “sotto” Mussolini, si squagliarono, stridendo alla maniera dei topi, non appena la barca incominciò a fare acqua.
    In sostanza le storie che la Televisione ha, dapprima ipocritamente e poi maramaldescamente, raccontate alla tua fantasia di bambina sensibile, avevano due scopi ben precisi: il primo di giustificare la dittatura del “ventennio”, il secondo di scaricarne tutte le responsabilità, morali prima ancora che politiche, sui vinti della Repubblica Sociale Italiana. Perchè vedi, Marzia, se in Italia non ci fosse stata la Repubblica, e la storia si fosse fermata al 25 luglio 1943, i “responsabili” sarebbero parecchi. Nessuno o quasi si salverebbe.  Oggi tu sai che Presidente dei Consiglio è l’Onorevole Segni, e se ascolterai la radio saprai ch’egli è un patriota e un antifascista, un sincero democratico.  Appunto perchè, per sua fortuna, c’è stato l’8 settembre 1943, che ha permesso a Segni di far dimenticare il giuramento di fedeltà al regime fascista e, probabilmente, il distintivo fascista portato all’occhiello, come professore Universitario.  Ti dico Segni, perchè è il nome del giorno, ma quando ascolterai altri nomi, e leggerai di altre benemerenze, di Fanfani o di Ingrao, di Taviani o di Lajolo, di Pella o di Achille Corona, di Tambroni o di Martino, di tutti o quasi gli uomini politici Italiani dispersi nei molti partiti, ricorda che la situazione è sempre la stessa.
    Per questo le storie che ti hanno raccontate “visivamente” alla Televisione, nella prima parte erano rivolte a giustificare il fascismo, e in certo qual modo, a farlo perdonare agli italiani e agli stranieri.  Le proteste dei comunisti e degli antifascisti professionali, durante le prime puntate del racconto, erano in parte giustificate, ma fiacche, forse anche perchè i protestanti avevano ottenuto assicurazioni sul galoppo finale del programma.  E d’altro canto, ad esempio, l’onorevole Arrigo Boldrini, presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani, come avrebbe potuto protestare contro il filofascismo della TV fino al 25 luglio, se fino a quell’epoca egli era Centurione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale?
    Vedi, Marzia, quel che avvenne in Italia dopo l’8 Settembre ha rappresentato la più dolorosa tragedia della tua Patria, ma è servito anche a dare un falso passaporto di democrazia alla maggior parte dei vigliacconi che oggi comandano.
    Quante cose, potrei raccontarti, figlia mia, di quei tempi tragici. Basterebbe ti facessi storia, e potrei fartela, di molti che oggi vanno per la maggiore con l’aureola degli eroi, per farti ridere o per farti comprendere perchè, in definitiva, tuo padre, ch’è un uomo e non un topo, è stato con “quelli” e non con “questi”.
    Ti hanno fatto vedere tante cose tristi, tanti morti, tante distruzioni, ti hanno rattristata e forse, ti hanno fatto inorridire.  Ma non è tutto.  Sappi, bambina, che molti di quei lutti sono venuti “dopo”, sono cioè scaturiti da una reazione; ma sappi, soprattutto, che la guerra civile scaturì dall’imbecillità e dalla pavidità di una classe dirigente che dopo aver servito (servito è il termine esatto) il fascismo, e dopo essere stata complice dell’entrata in guerra, ha subito la pressione dell’antifascismo “resuscitato” dopo il 25 luglio per realizzare, nel più disastroso dei modi, il più criminoso rovesciamento di fronte che la storia ricordi.
    Hai visto sui teleschermi, la strage di trecentotrenta italiani alle Fosse Ardeatine?
    Ebbene, ricorda, bambina, che essa fu dovuta a rappresaglia perchè in Roma, dichiarata “città aperta”, ventisei soldati tedeschi disarmati furono uccisi dallo scoppio d’una bomba posta a tradimento dai comunisti.  E che gli autori dell’attentato, invitati a costituirsi per evitare la rappresaglia sui detenuti, si dettero alla macchia per poter essere in grado, poi, di entrare al Parlamento italiano come deputati del Pci e come eroi della “resistenza”.
    E’ una favola truce e turpe, quella che ti hanno presentata, figlia mia; ma incompleta. Lascia, perciò, che te la racconti anch’io, che te la completi.
    C’era una volta un amico del tuo papà, aveva ventotto anni, era onesto, sincero, povero e disinteressato. Intendeva -andare verso “il popolo” perchè al popolo voleva bene: si chiamava Eugenio Facchini, e ai primi di ottobre dei 1943, quando Bologna era ancora tranquilla, fu nominato Segretario federale della città. Tre mesi dopo fu massacrato a colpi di rivoltella (nella schiena) mentre stava andando a colazione alla mensa dello studente. Fu il primo morto della guerra civile a Bologna, e dalla sua ingiusta morte, che non dava gloria o vantaggio a nessuno, vennero le prime sanguinose reazioni.
    C’era una volta un vecchio professore universitario che mai si era occupato di politica, che dal fascismo non aveva ottenuto nè onori, nè cariche, nè guadagni, era un antico nazionalista che aveva sentito la necessità di “aderire” alla Rsi e, quindi, di reagire alla resa incondizionata di Cassibile e al rovesciamento di fronte che avevano disonorato la sua Patria. Era un uomo onesto, buono, che non aveva mai fatto dei male a nessuno e fatto dei bene a tutti, era uno studioso di fama mondiale. Si chiamava Pericle Ducati, e fu massacrato a revolverate mentre, con un libro sotto il braccio, tornava a casa.
    C’era una volta, la favola è lunga, Marzia!, il più grande filosofo contemporaneo, come un giomo saprai; lo spirito forse più alto che abbia avuto l’Italia in questo secolo, e fu ucciso, mentre rientrava in famiglia, per la somma di tremila lire.  Si chiamava, pensa, Giovanni Gentile.
    C’era una volta un Poeta, cieco di guerra, cieco a ventisei anni, che quando tutto crollava aveva ritenuto suo dovere servire i Mutilati, cioè coloro i quali avevano offerto, come lui, i doni più preziosi dell’esistenza alla Patria. Fu ucciso come un cane, a revolverate, in mezzo alla strada, senza una ragione e senza pietà.  Si chiamava Carlo Borsani.
    Tra i tanti nomi che hai ascoltato alla Televisione, questi non li conosci; tra i tanti funerali che hai veduto questi sono mancati; tra i molti orrori questi non sono stati menzionati. Tu hai veduto tante bandiere tricolori che sventolavano, gioiose alla fine della guerra civile, ma non ti hanno fatto vedere, per tua fortuna, il carnaio approntato in una piazza di Milano, dove Colui che tutti avevano servito e riverito, e che non aveva voluto fuggire perchè, se lo avesse voluto, come i maramaldi della Televisione affermano, avrebbe sempre avuto un aereo sul quale imbarcarsi era appeso per i piedi, a ludibrio di una plebe imbestialita e a eterna vergogna dell’italia moderna. Non ti hanno fatto vedere, nè ti hanno detto, Marzia, che mentre quelle bandiere sventolavano e quelle “formazioni” venivano passate in rassegna dai “vittoriosi”, migliaia e migliaia di uomini, donne, giovanotti, fanciulli venivano massacrati; che in una caserma di Vercelli settanta giovani disarmati venivano schiacciati vivi e ridotti poltiglia, per ordine e sotto gli occhi di un eroe della resistenza, il ragioniere Carlo Moranino, divenuto più tardi deputato al Parlamento Italiano per questa meritoria impresa.
    Questo, figlia mia, è il completamento della favola che gli amanuensi della Televisione italiana hanno approntato, per falsare la storia, per meritare gli elogi delle classi dirigenti e per far sì che i figli, intimamente, disprezzassero i padri. Ho dovuto raccontartelo fino in fondo, e dirti che cosa fosse lo “spirito della resistenza” perchè quella tua frase: -Ma papà era con quelli? ... mi ha dolorosamente colpito. Vedi bambina, io, in tanti anni e in tante vicende, non ho mai odiato nessuno; ma quando ho appreso di quella tua domanda ho sentito, per la prima volta, Dio mi perdoni, lo stimolo dell’odio.
    D’ora in avanti, Marzia, ti farò io la storia: e ti dirò chi veramente era Mussolini, cosa fu il fascismo e cosa fummo noi, vinti, protagonisti dell’ultima e disperata avventura.  Non credevo, dopo tanti anni, quando tutto doveva essere superato e dimenticato, di dover tornare a questo.  Ma tu devi sapere, voglio che tu sappia; voglio che quando sarai grande possa insegnare ai tuoi figli le cose che ti dirà tuo padre, perchè “questi” l’hanno voluto, me l’hanno imposto.
    Voglio dunque che tu possa essere orgogliosa di me, anche e principalmente se ero con “quelli”. Sì, ero con “quelli”: ero con Mussolini, con Giovanni Gentile, con Pericle Ducati, con Goffredo Coppola, con Francesco Ercole, con Giotto Dainelli, con Marinetti. E un giorno saprai, bambina, chi erano costoro, e vedrai che erano qualcosa di più e qualcosa di meglio dei Pani, dei Cadorna, dei Moranino; potrai renderti conto che anche tuo padre era un Italiano e per di più un Italiano coerente, che ha saputo subire fino in fondo la tragedia (che è storia) della sua Patria, anche se questa colpa gli vieta oggi di poter “rettificare” le storie della Rai-Tv, compilate e realizzate dal suoi antichi camerati, trasformatisi in maramaldi.
 
Tuo padre

PIERO OPERTI CAPO PARTIGIANO SCRIVE
Piero Operti
 
     Si, O SIGNORI, io son quel desso. Son colui che distinguete col nome di “Repubblichino”. Appartenni alle Forze Armate della R.S.I. Voi vedete in me la sentina di tutte le colpe, il ricettacolo di tutti gli errori, la pattumiera di tutte le iniquità. Infatti tenni fede alla parola data alla Patria quando la vostra saggezza aveva, quella parola, per chiffon de papier; credetti quando tutto comandava lo scetticismo; quando l’imboscamento veniva aureolato di gloria volli continuare a combattere. Son colui che distinguete col nome di “Repubblichino”.
    Fui soldato dell'onore - sostantivo maschile derivato dal latino "honor, honoris" della terza declinazione regolare - e, mentre voi radiavate dal dizionario questo vocabolo come contrastante con l'eclettismo della itala gente dalle molte vite e dalle molte casacche, ricordai che i Romani divinizzarono l'ONORE e il VALORE e li venerarono in un medesimo tempio; e mentre la Fortuna giungeva a voi sulle ali dei «Liberators» io ricordai che i Romani, dopo la rotta di Canne, edificarono un tempio alla Fortuna Virile, e che conferendo maschiezza alla fortuna essi ne fecero non un dono del caso bensì una conquista del valore.
    Perciò il 5 giugno 1944, quando voi alzavate inni di giubilo per la «liberazione» di Roma, io piansi le più cocenti lagrime della mia vita e invidiai i camerati del «Barbarigo» caduti sulla via dell'Urbe opponendosi con le bombe a mano, come il Maggiore Rizzati, all'avanzata degli «Sherman».
    E, mentre a Trieste voi gridavate: «Meglio gli slavi che i fascisti» e Radio Bari annunziava l'avanzata dei partigiani jugoslavi lungo la costa istriana, chiamandola «litorale sloveno», io sostenni nella selva di Tarnova, contro le bande dì Tito e gli ausiliari di Togliatti, un aspro combattimento nel quale quasi tutti i miei compagni del «Fulmine» persero la vita.
    Fui soldato dell’Italia ritornata espressione geografica e sperai di chiudere per sempre gli occhi per non vedere la sua plebe d'ogni rango sciamare intorno ai vincitori, offrendogli i suoi fiori e le sue donne e azzuffandosi per raccattar le sigarette gettate dall'alto dei carri.
    Quando, infranta la linea gotica, nelle vostre città voi apprestavate archi di trionfo e vi gettavate ai linciaggi, io sparai sul Senio sino alla mia ultima cartuccia e coi camerati superstiti del «Lupo» ricevetti dal nemico l'onore delle armi, come Kosciusko a Macovje, qualcuno in quel luogo e in quell'ora pronunziò le parole: «finis Italiae».
    Sono, o signori, il temerario ribelle alle suggestioni della liberazione e della capitolazione.
    Rimasi al fianco del tedesco perché la guerra non è un giro di valzer e con lui l'avevo incomincìata, perché sapevo ch'egli ci era nel presente e ci sarebbe stato nel futuro meno nemico degli alleati, e perché prevedevo che costoro, essendo buoni sportivi, ci avrebbero in qualunque caso meglio giudicati e trattati se non piantavamo in asso il compagno di squadra nell'ora più dura della partita. Per questo compagno avevo la stima che non può negarsi al valore e che schiettamente egli ricambiava a tutti i buoni soldati. Come in Grecia, in Russia, in Africa rimasi al suo fianco in Italia e accanto a lui sanguinante camminai nel mio sudore e nel mio sangue avendo di fronte lo schieramento del nemico, sulla R.A.F., alle spalle le fucilate dei partigiani; e spesso dovevo chiedere a lui le munizioni, essendo le mie inservibili perché sabotate nelle fabbriche.
    Venuto il mio turno, rifiutai la licenza, sapendo che al paese mi attendeva l'agguato, e volevo morire contrastando all'invasore la mia terra e non assassinato da un italiano.
    MI STRINSI AL CUORE L'ULTIMO LEMBO DELLA BANDIERA, quando voi ne davate i brandelli ai negri perché li adoperassero come pezze da piedi. Nulla mi sembrò più orribile del proclamarsi vincitori in una patria disfatta e bruciai la mia anima nel rogo dell'Italia delle cui ceneri avete fatto il Vostro Piedistallo.
    Ebbi l'inaudita protervia di vedere fra i ciechi, di udire fra i sordi, di camminare fra i paralitici, di piangere sulla fine della mia Patria mentre voi tripudiavate sul principio della vostra trionfale carriera. Risparmiato dalla guerra e dalla guerriglia, scampato alla ecatombe liberatoria, sopravvissuto a Coltano e alla galera, vengo dinanzi a Voi, o signori, a confessare il cumulo dei miei delitti.
    So bene che nessun castigo da Voi inflittomi potrà adeguarsi ad essi; valga nondimeno ai vostri occhi la mia prontezza a pagare il fio di tanti misfatti.
    «Molto deve esserle perdonato perché molto ha amato», disse della Maddalena il Redentore, e giustamente disse, poiché la donna piangeva sul suo passato; così giustizia vuole che avendo molto amato nulla a me sia perdonato, poiché il mio cuore, duro come una pietra, è insensibile al pentimento.     E' questa in verità, o Signori, la mia ultima colpa, più grave da sola che tutto il carico delle colpe passate: «NON SONO PENTITO». Ma avendo militato nell'opposta trincea io non posso pronunciare questo discorso e perciò lo passo a qualche antico avversario il quale mi sia oggi fratello nell'amore per l'Italia, affinché se ne serva quando inciampa in quella domanda che io ho incontrata».
 
 
DECIMA COMANDANTE Ottobre 1997 (riportato in) (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

QUELLA GENERAZIONE IRRIPETIBILE
L. F.
 
 
    Non passa giorno, da quasi dieci lustri, che la 'storia' di questa sventurata Patria nostra non sia funestata da squalificanti vicende che interessano spesso la cronaca nera. Senza soluzione di continuità dimostra il vuoto morale, lo squallore nel quale è sprofondata quella che fu la culla della civiltà e del diritto. Tali miserie sono divenute costume di vita per questa società marcia, che si è votata al dio denaro e ai suoi ineffabili diaconi.
    Abortita nel profondo e maleodorante abisso del tradimento savoiardo e di una guerra malamente perduta priva di ogni idealità, spogliata da qualsivoglia valore etico, questa società acefala ha prodotto una miriade di scandali, malgoverno, "misteri irrisolti", reati e delitti d'ogni sorta. Società che vivacchia nella mediocrità, nell'inerzia, nel materialismo e, come per un processo imbibente, assorbe le macroscopiche falsità costruite da interessati sinèdri. Società plagiata da liturgie girondine e giacobine inculcate da sedicenti mallevadori e reclamizzati solisti di un futuro ausonico Eden. Società che ha dato i natali a generazioni vacue, già vecchie e decrepite, senza slanci, colme di un fittizio benessere, spesso incline a ogni scelleratezza e prive di regole di comportamento civile. Agli antipodi di qualsiasi galateo, irreggimentate in un mondo folle e vile, dove consuetudini, precetti e doveri sono banditi. Nella migliore delle ipotesi, irrisi.
    In questo mare di abiezione, unica rifulge una luce. Un bagliore 'forse' lontano ma vivissimo, intriso di ascetico misticismo. Ci ricorda e ci parla di un'altra generazione. Di una generazione 'irripetibile'.
    'Irripetibile', come senza enfasi l'ha definita magistralmente Sergio Nesi Med. Arg. V.M., Ten. di Vasc. dei Mezzi d'assalto della Xa in RSI. Così, l'Autore di 'Decima Flottiglia nostra... ', celebra i combattenti dell'Onore e li consegna alla Storia. Generazione irripetibile quella, di giovani e meno giovani, che all'indomani dell'otto settembre non ha accettato la resa e si è ribellata al tradimento perpetrato sì all'alleato germanico ma, soprattutto, al popolo italiano, marchiandolo di spergiuro e arrecandogli danni inestimabili.
    Generazione irripetibile quella che volontariamente prese le armi contro il nemico invasore, consapevole di battersi soltanto per l'Onore.
    Generazione irripetibile che, nel grigiore e nella confusione di quei tragici giorni, fece garrire, alte nel cielo e in faccia a tutti gli stranieri, le bandiere ribelli della Repubblica Sociale Italiana.
    Generazione irripetibile che aborriva il mondo fradicio dell'ignavia, del doppio gioco, del calcolo interessato, dei servi e dei vili. Generazione irripetibile quella, che anelò al combattimento -facendosi guerriera in capo a qualche mese- a vergogna di una pletora plebea nell'animo e di una misera manciata di assassini. Generazione irripetibile quella, che diede vita a un fenomeno di volontarismo non riscontrabile in altra stagione o sotto altre latitudini. Generazione irripetibile quella, che dimostrò agli amici traditi, ai nemici invasori, al mondo intero, di quale tempra fossero quei Marinai, Avieri, Soldati, Legionari della RSI e, per la prima volta anche, la migliore gioventù femminile d'Italia. Generazione irripetibile quella, che donò alla Patria nomi gloriosi come 'Barbarigo', 'Fulmine', 'NP', 'Lupo', 'Servizi Speciali', 'Folgore', 'San Marco', 'Monterosa', 'Xa Mas', 'Gruppi I° e II° Caccia', 'Faggioni', 'Terracciano','I° Btg. Bersaglieri Mussolini', 'Degli Oddi', Legioni 'Tagliamento'. Generazione irripetibile quella, che contrastò efficacemente l'avanzata dei potenti eserciti 'alleati', difese vittoriosamente il confine occidentale da invasioni straniere e quello Giulio dei barbari d'oriente. Generazione irripetibile che offrì orgogliosamente e senza rimpianto il proprio sangue perché la Patria - ritrovando l'onore - vedesse il suo popolo vivere affratellato e nel reciproco rispetto con le altre Nazioni. Quella generazione irripetibile languì nelle carceri, nei campi POW e subendo, a guerra finita, un martirio indescrivibile ad opera di feroci animali travestiti da uomini. Generazione irripetibile, che, offrendo tutta se stessa e senza nulla chiedere, suscitò l'ammirazione del nemico che, spesso, concesse ai Reparti di linea l'onore delle armi.  Essa fu e rimane quanto di meglio - per onestà, amor di Patria, senso dell'onore, del dovere e del sacrificio - l'Italia abbia avuto e possa vantare. Tra i molteplici riconoscimenti alla scelta di campo, al valore e al sacrificio dei Combattenti repubblicani, è sintomatico quanto asserito, anni addietro, dall'ex re d'Italia, circa i Volontari dell'Onore che, pur avendo scelto la parte perdente, erano stati -inequivocabilmente- dalla parte giusta. Nel corso di una intervista riportata su "Il Testimone" (Pubblicazione del Comitato Interarma RSI), Umberto di Savoia così si espresse. "Voi della RSI siete stati dalla parte giusta. La ragione e la Storia sono state e saranno sempre con voi. Se non fossi stato il figlio di Sua Maestà il re d'Italia, io pure avrei scelto la via del nord." I soldati della Repubblica Sociale Italiana hanno amato e onorato l'Italia sopra ogni cosa. Noi che vivemmo i tragici giorni del settembre '43, siamo  orgogliosi di aver appartenuto a quella 'Generazione irripetibile'.
 
 
 NUOVO FRONTE N.159. 1995. Dicembre 1995 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

QUEI REDUCI DALLO SGUARDO COSI' PULITO
Toni De Santoli
 
 
    Li perseguita da quasi mezzo secolo un'accusa, quella di guerrafondaismo. Singolare paese, l'Italia, e ancor più singolari -per non dire altro- i “vincitori” nostrali secondo i quali l'avversario è sempre bieco, sempre spietato, sempre assetato di sangue. Crede in una “dea” chiamata Sopraffazione e obbedisce ai più bassi istinti. Il suo slancio, poi, è scambiato per intossicazione mentale, la sua coerenza per cecità, la sua fierezza per protervia, la sua sicurezza per sicumera.
    Qualcosa, sebbene con grave e colpevole ritardo, sta cambiando nel modo in cui da noi s'interpretano la storia, la politica e i casi della vita in relazione a come essi si inquadrano nel cammino, che di per sè non è mai facile, di un popolo intero. Ma quanti in Italia trovano ancora comodo per via di durissime incrostazioni ideologiche e per via della pigrizia mentale e della paura intellettuale che ne attanaglia le meningi e ne inaridisce il cuore - definire i paracadutisti, e soprattutto quelli della Seconda Guerra Mondiale, come pericolosi esaltati che un tempo posero se stessi al servizio delle forze del male? Tanti. Di un tale atteggiamento potremmo anche fregarcene se simili opinioni quei “tanti” avessero il buon gusto di tenerle per sè punto e basta. Sui giornali, in tv, a scuola, in ufficio, in casa, ne fanno invece propaganda trovando un fertile terreno proprio nei giovani e nei giovanissimi. Ingenua l'osservazione? Può darsi. Ma è mai possibile che in questo Paese si debba esser condannati a dar sempre prova di realismo, di concretezza, di scetticismo, col risultato che alla fine non si crede più in nulla se non nel proprio interesse personale o in quella della propria setta o conventicola? Può subire modifiche il carattere di un uomo, non la natura. E' allora pensabile che i reduci visti sabato e domenica nell'Agro Pontino abbiano compiuto mezzo secolo fa infamie e scellerataggini e a quell'epoca trovassero nella guerra la loro sola ragione di vita?
    Ma guardiamoli, i loro occhi sono puliti. Alcuni portano ancora con sè una luminosità fanciullesca. Come lo sguardo di Alessandro Ceccarini, livornese, figlio del popolo, classe 1913, tre guerre, un onore sempre ben salvaguardato. Come quello di Ettore Balzini, fiorentino, volontario nel '43, forte della consapevolezza di aver fatto il proprio dovere di soldato e questo gli basta, nemmeno lui cerca l'applauso, nemmeno lui è andato in guerra per ricavar dalla guerra chissà quali onori o riconoscimenti. O come l'espressione di Romano Ferretto, il grande atteso al raduno dei parà della Rsi poichè agli altri raduni lui non ha mai preso parte, poichè i combattimenti del 3 e 4 giugno al Fosso dell'Acquabona lo hanno segnato per sempre. Sembra un asceta il tenente Ferretto che indossa modestissimi abiti ed è un uomo straziato. Ancora straziato da quel giomo che all'Acquabona il comando operativo tenuta dalla Wehrmacht gli ordina di prendere un colle e lui obbedisce: è un attacco in salita, sotto il fuoco, intenso e preciso, degli inglesi. La sua compagnia, la Settima -quasi del tutto composta di giovanissimi- ne esce decimata. Lui, che non ha colpa alcuna, se ne sente però responsabile. Quel giorno cambia per sempre la sua vita. Quando i parà al tramonto si riuniscono con emozione nel luogo della battaglia e a lui viene chiesto di scoprire la lapide che ricorda il sacrificio della sua compagnia, sul volto di Romano Ferretto scendono grosse lacrime e in pochi istanti il suo pianto si fa convulso. “là troppo il dolore”, sussurra con la voce ancora rotta e i suoi commilitoni lo abbracciano, lo rincuorano, lo salutano. Poco prima il maggiore Sala aveva detto ai suoi ragazzi: “Miei cari paracadutisti e ausiliarie, sono felice di vedervi qui dove cinquant'anni fa vi siete battuti con valore e dove, indicando un sentiero, una pietra, potrete dire "Io ero qui". Cari ragazzi, l'8 settembre abbiamo continuato a combattere per l'onore d'Italia, soli, ma quella solitudine ci faceva più forti, responsabili del tremendo impegno che ci eravamo assunti. La nostra grande avventura non cambiava il destino delle armi, ma certamente il giudizio della storia sul popolo italiano».
 
 
L’ULTIMA CROCIATA N. 5. 1994. Direzione e Redazione (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

UN GENERALE AMERICANO RENDE OMAGGIO AD UN CADUTO DELLA RSI. MIGNANO MONTELUNGO
C.S.
 
 
    Era stato considerato un morto di serie B, perché «caduto dall'altra parte». A mettere fine all'assurda discriminazione è stato il generale Edward H. Thomas che mercoledì, a capo di una delegazione di reduci delle truppe statunitensi . e canadesi che nel '44 combatterono a Mignano Montelungo, ha reso omaggio a un caduto della Repubblica sociale italiana (Rsi), il tenente dei bersaglieri Rino Cozzarini. Il generale Thomas ha deposto una corona di alloro alla base della stele che ricorda che è anche prima medaglia d'oro della RSI.
 
 
IL GIORNALE Quotidiano del 4 Giugno 1994

UN IDEALE PASSAGGIO DI CONSEGNE
 Walter Jonna. Uff. Stampa Xa Flottiglia MAS.
 
 
    La Generazione che ha combattuto la guerra tra il 1940 ed il 1945 è stata una generazione fortunata e sfortunata insieme.
    Fortunata perchè si è presentata, sul nascere dell'immane tragedia, ricca di valori, quali il convincimento di appartenere ad una terra pregna di tradizioni, storia, cultura, genialità universali, di appartenere ad un popolo con un radicato ordine morale e materiale in seno alla famiglia, alla collettività nazionale, alle istituzioni dello Stato, con una profonda spiritualità derivante dalla fede in Dio, nella Patria e nella solidarietà umana. Generazione sfortunata perché ha visto queste fondamenta, sulle quali teneva di poter costruire la propria esistenza, disgregarsi lentamente e poi crollare definitivamente, rimanendo smarrita, quasi in un triste isolamento, non avendo altra alternativa che salvare la propria dignità individuale nel contesto del mondo circostante. Ecco perchè l'8 settembre 1943, di fronte al comunicato di Badoglio, fummo chiamati ad una scelta e ci si è trovati improvvisamente soli ad interrogare ognuno la propria coscienza, ed in noi hanno prevalso fattori di ordine spirituale, anche al di sopra di ogni ragione politica.
    Oggi, a cinquant'anni dalla fine della guerra, i reduci di quella scelta, quella della R.S.I., sono ancora qui per riconfermare la fede a quei principi ispiratori, per testimoniare con la loro presenza, la loro identità storica, giuridica e morale.
    Quella che seguì l'8 settembre 1943 fu una scelta tormentata e sofferta, reazione rabbiosa alla firma di un armistizio che, nella realtà, fu resa senza condizioni, un capovolgimento improvviso del fronte e quindi un tradimento inqualificabile verso l'alleato tedesco con il quale, sino ad un istante prima e per oltre tre anni consecutivi, si erano condivisi sacrifici, distruzione, morti. Quell'8 settembre significava non avere più amici, mai più alleati, non più l'onore, essere additati nella storia al disprezzo di tutto il mondo, anche perchè incapaci di battersi nella situazione avversa. Quale scenario lugubre: il Governo ed il Re fuggono e si rifugiano in territorio occupato dal nemico, abbandonando tutti nel caos più completo; lo Stato si dissolve nelle sue strutture, nei suoi ordinamenti. C'è chi plaude e ride perchè crede che la guerra sia finita. C’è chi piange con rabbia e con dolore per quello che l'Italia avrebbe subito e vissuto nel suo immediato e lontano avvenire.
    In ogni guerra la questione di fondo non è tanto vincere o perdere, vivere o morire, ma come si vince, come si perde, come si vive, come si muore. Una guerra si può anche perdere, ma con dignità e lealtà. La resa ed il tradimento bollano per secoli un popolo davanti al mondo.
    Ecco perchè molti giovani scelsero allora di combattere, pur consapevoli dell'esito, al quale andavano incontro. Fu una scelta che non poteva riservare che lacrime e sangue e nessun vantaggio materiale e terreno, ma avrebbe dato un carattere di spiritualità e pulizia morale che nessun'altra scelta avrebbe potuto dare, per se stessi e come italiani di fronte al mondo ed alla storia. Si costituì la Repubblica Sociale Italiana, Stato legittimo, riconosciuto dall'Alta Corte Internazionale dell'Aja e cosi dalle sentenze del Tribunale Superiore Militare Italiano. Fu ricomposta la continuità dello Stato con le sue strutture, con i suoi ordinamenti civili, giudiziari, finanziari, amministrativi, sociali, riattivando le fabbriche, le industrie, il commercio, la stessa zecca con propria moneta italiana, e soprattutto riaffermando la piena sovranità italiana sul territorio, a dispetto dello stesso alleato tedesco che, altrimenti, avrebbe potuto imporre la legge dell’occupazione militare. C'è da chiedersi che cosa sarebbe accaduto senza la costituzione della R.S.I. e delle sue FF.AA.
    Ben altra sorte fu riservata dagli angloamericani all'Italia occupata nel Sud. La guerra civile non poteva essere prevista l'8 settembre; questa, per altro, si sviluppò sul finire del conflitto e non fu voluta dall'autentico popolo italiano. Gli anglo-americani soffiarono sul fuoco per i loro fini strategico-militari, alimentando prima gli ex-prigionieri di guerra alleati, liberati l'8 settembre e rifugiatisi sulle montagne, e, in seguito, una esigua minoranza di politici antifascisti e di renitenti alla leva ed assai più copiose bande di comunisti che agivano soltanto per preparare un'Italia di marca bolscevica.
    Le FF.AA. della R.S.I. si costituirono con il fine immediato di affiancare l'alleato tedesco, per contrastare l'invasione anglo-americana e difendere i confini dello Stato, non per essere coinvolte in una guerra civile.
    Grandi unità e reparti furono inviati a presidio dei valichi alpini ed appenninici e delle coste sul fronte occidentale. Altre unità e reparti a difesa del fronte orientale per opporsi alla pressione delle forze comuniste slave. Se Gorizia e Trieste oggi sono italiane questo è dovuto al sacrificio dei caduti e dei combattenti della R.S.I..
    Sul fronte sud prima di Nettuno, le FF.AA. della R.S.I. contrastarono l'avanzata alleata verso Roma, poi sulla linea gotica, in Garfagnana e sul Senio contro l'8a armata britannica e la 5a armata USA.
    La Marina e l'aeronautica della R.S.I. particolarmente con i mezzi d'assalto della Decima Flottiglia MAS e con gli aerosiluranti, scrissero pagine straordinarie di eroismo, data l'esiguità dei mezzi, ma non degli uomini, affrontando fino all'estremo sacrificio l'imponente superiorità aeronavale anglo-americana.
    Gli appartenenti alle FF.AA. della R.S.I. ebbero il riconoscimento internazionale come belligeranti. Così furono considerati dagli alleati come appartenenti ad uno Stato legalmente riconosciuto in guerra contro di loro; tanto è che gli stessi, fatti prigionieri, ricevettero lo stipendio previsto dalle convenzioni internazionali.
    Alla fine della guerra reparti di soldati, marinai, avieri delle FF.AA. della R.S.I. disseminati sui vari fronti, ottennero dal nemico l'onore delle armi.
    La Repubblica Italiana, come dice la Costituzione, fondata sulla "resistenza", può permettersi delle licenze, affermando che l'Italia si è "liberata" da sola e quindi non è stata sconfitta, cosicché risulterebbe che solo la Germania ed il Giappone hanno perso la guerra. Ma non fu così al tavolo della pace. Trasformare una invasione, una resa, un tradimento, una sconfitta, in una "liberazione" è puro virtuosismo verbale, che non può coprire una verità ed una viltà storica.
    E non lo dicono i reduci della R.S.I.
    Lo dicono: il comandante supremo delle Forze USA nello scacchiere europeo, Eisenhower, nel suo “Diario di Guerra”: " ...la resa dell'Italia fu uno sporco affare. Tutte le nazioni elencano nella loro storia guerre vinte e guerre perse, ma l'Italia è la sola ad aver perduto questa guerra con disonore, salvato solo in parte dal sacrificio dei combattenti della R.S.I" [Citazione errata. Vedi Nota 1 a cura di www.italia-rsi.org]
    Ed ancora il Gen. Alexander ne “Le armate alleate in Italia”: "...il fatto è che il Governo italiano decise di capitolare non perchè si vide incapace di offrire ulteriore resistenza ma perchè era venuto, come in passato, il momento di saltare dalla parte del vincitore". Ed ancora da “Le memorie del maresciallo Montgomery”, comandante dell'8a armata britannica: "...Il voltafaccia italiano dell'otto settembre fu il grande tradimento della storia
    Ed ancora dal “Taccuino segreto di W. Churchill”, primo ministro inglese: " ... solo dopo la defezione italiana noi abbiamo potuto raggiungere la vittoria."
    Ed ora da “Storia della diplomazia” di Potemkin, ambasciatore sovietico a Roma: " ... l'Italia fu fedele al suo carattere di sciacallo internazionale, sempre in cerca di compenso per i suoi tradimenti..."
    Da un articolo di fondo apparso tempo fa sul "Washington Post", autorevole giornale americano: " ... che alleato sarà l'Italia nel caso di una guerra? Quali garanzie ci sono che l'Italia, la quale ha cambiato schieramento nella seconda guerra mondiale di questo secolo, non farà altrettanto?"
    Noi combattenti della R.S.I. abbiamo consacrato la nostra esistenza al culto della Patria e dei valori come lealtà, dignità, onore. Molti sono caduti con lo stesso spirito del nostro Risorgimento. I combattenti ed i civili della R.S.I. sopravvissuti al conflitto, alla guerra civile, al massacro indiscriminato, dei giorni della cosiddetta "liberazione" dell'aprile 1945, e barbaro anche nei mesi successivi alla fine della guerra, hanno continuato ad alimentare la sacra fiamma della fede nell'Italia, trovando sostegno solo nell'amore delle proprie famiglie.
    Nel corso di questi cinquant'anni, gli appartenenti alla R.S.I. sono stati epurati, perseguitati, esiliati in Patria, sommersi da un materialismo dilagante, dal cannibalismo del potere, dallo sfascio delle istituzioni, nell'assenza totale di una coscienza storica unitaria. Le parole Patria, Eroi, Famiglia, sono state sostituite da paese, obiezione di coscienza, divorzio, aborto. Se la nostra Italia fosse, oggi, quella che abbiamo sempre sognato, pulita, e concorde all'interno, rispettata nel mondo, forse non avremmo sentito cocente la necessità di ritrovarci, di essere ancora presenti.
    Siamo qui, a distanza di cinquant'anni, per testimoniare con la nostra presenza, la fedeltà e la coerenza ai nostri principi.
    Siamo qui per onorare i nostri morti, tanti che ancora non hanno avuto una sacra sepoltura, né pace con dignità.
    Siamo qui per risvegliare le menti, sia pubbliche che private, contro la illegittimità di leggi e normative che da mezzo secolo continuano ancora a penalizzare centinaia di migliaia di italiani e le loro famiglie.
    Questo mentre Associazioni Nazionali dell'Arma, alti Comandi Militari di nazioni allora in guerra nostre nemiche, cerimonie nazionali con la presenza di alte autorità politiche e militari, confermano invece il superamento di ogni discriminazione ed esternano rispetto e considerazione nei nostri confronti. E' dell'altro ieri il veto del Presidente della Repubblica alla nomina a ministro di un deputato della maggioranza parlamentare, democraticamente eletto dal popolo, perchè reduce della R.S.I.
    Ci si chiede: cosa aspetta lo Stato Italiano per ricomporre, a distanza di cinquant'anni, l'unità di tutti gli italiani nello spirito di una serena e feconda convivenza civile senza più discriminazioni? Se attende la nostra totale scomparsa fisica per seppellire insieme le nostre radici, i nostri principi, i nostri ideali, incorre in un grave errore.
    Ci troviamo infatti oggi con tanti giovani curiosi ed entusiasti di stare al nostro fianco, gelosi dei nostri stessi valori e decisi a volerli ereditare, difendere e tramandare.
    Ritroviamo in loro la fede della nostra giovinezza ed oggi li salutiamo in piedi, nel momento del nostro inevitabile commiato, per trasmettere loro il testimone, prima che ci cada di mano. Questo testimone che racchiude l'essenza della nostra vita; lo conservino con amore e tenacia, e lo trasmettano a loro volta oltre il duemila.
    Sono valori perenni, universali, quelli che ci hanno sempre guidato, così come l'8 settembre 1943: sono la lealtà, la fede alla parola data ed alle radici della nostra storia, l'onestà, il coraggio, l'impegno, la preparazione, la rinuncia al convenzionale, all'opportunismo; valori racchiusi in un codice di comportamento cosi come nel decalogo di vita rivolto ai giovani da Giovanni Gentile fin dal lontano 1932: " ... nessun privilegio se non quello di compiere per primi la fatica, il dovere; avere come testimonio la propria coscienza, che deve essere il più severo, il più inesorabile dei nostri giudici; la ricchezza un mezzo, non un fine, e poi l'amore infinito e con orgoglio per questa nostra Terra, nel ricordo di chi con l'arte, il genio, il sacrificio l'ha resa più unita ed onorata nella Storia del mondo".
    Un testimone, il nostro, consegnato ai giovani e che vuole essere un viatico di Fede, un concetto d'amore, un grido di speranza.
 
 
DECIMA COMANDANTE! (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
NOTA 1 a cura di www.italia-rsi.org, per citazione errata:
    Riteniamo doveroso approfittare di questa citazione, probabilmente ripresa da altra citazione senza controllo, sfatare la realtà di questa frase.
    A seguito di un interessante dibattito avvenuto in Rete Internet, se non andiamo errati, agli inizi del 2000, Voltolini, curatore del sito http://www.decima-mas.net/  ha scritto in merito:
Finalmente sono riuscito a sbrogliare la matassa della frase di Ike Eisenhower.
Nei "Prolegomeni alla storia della RSI" (pro manuscripto, Città di Castello 1946), una sorta di diario intimo di Francesco Barracu (sottosegretario nella RSI, morì fucilato dai partigiani poco prima di Mussolini) si legge quanto segue: "Noi fascisti repubblicani siamo l'onta della Nazione. Ne ho parlato tante volte col Duce e con Starace, ma la parola data non si può ritrarre. [...] Ho inviato anche un messo al generale Eisenhower: la situazione è disperata e temo che tutti noi repubblicani siamo considerati d'una sola fatta. Ma non è così [...]"
Un amico poi mi segnala le memorie del maresciallo Apriliti (di lui si parla anche qui http://www.storiainrete.com/enigmi/mussolini-churchill/muss-church1.htm ). Queste memorie non hanno titolo, e dopo qualche peripezia sono riuscito a procurarmene una fotocopia: è qui di fronte a me. Sulla prima pagina campeggia la seguente frase: "Ho servito la Patria". Direi che potremmo utilizzarla come titolo emblematico per queste pagine manoscritte.
Ecco il punto che ti segnalo: "21 gennaio 1945. Di ritorno da Porto Ceresio. Accompagnato il D. [NDR: penso si riferisca al duce]. Arriviamo a Milano e Barracu mi consegna un plico [NDR: da quello che si dirà poi, contiene il messaggio cui faceva prima riferimento Barracu] [...] 25 gennaio 1945. Birzer [NDR: ufficiale delle SS, aveva l'incarico di seguire Mussolini ovunque andasse] mi presta la vecchia Enigma. Inizio a criptare il messaggio. Mai avrei pensato di leggere le parole scritte da un fedele camerata del D. . "Onta della nazione". Ma io non mi sento così. Gli ordini sono ordini. Certo che le istruzioni della macchina sono solo in tedesco, e i tasti logori [...]".
Torniamo a Barracu e ai suoi già citati "Prolegomeni": "Il maresciallo è partito oggi. Parlerà con Piero-Paolo [NDR: Noto capo partigiano]. Le nostre vite sono legate ad un filo."
Lasciamo ora per un attimo Barracu e Apriliti, e andiamo oltre oceano.
Sarai contento di sapere che sono riuscito a procurarmi anche il diario di guerra di H.C.Butcher "My Three Years with Eisenhower; the Personal Diary of Captain Harry C. Butcher, USNR Naval Aide to General Eisenhower, 1942-1945", NY, Simon, 1946.
E' un bel volume in sedicesimo, diviso in tre tomi. L'ultimo è dedicato al 1945. Ed ecco la citazione che ci interessa (la traduzione è mia). "2 febbraio 1945 - Ieri il vecchio [NDR: così Butcher chiama Ike lungo tutto il diario] ha ricevuto un plico da oltre il Po. Esce dall'ufficio e ordina: "Translate!" [Trad: "Tradurre!"]. E' un pezzo di carta con incomprensibili serie di numeri. Mike saprà cosa fare [...].
4 febbraio 1945 - [...] La traduzione è lì, Mike ne ha parlato con Donovan [NDR: Servizi segreti, direttore dell'ufficio traduzioni del QG di Eisenhower dal 1944]: non riescono a raccapezzarsi. Ne è venuta fuori una frase senza senso che riguarda i fascisti repubblicani "unti della nazione". E poi chi è questo Barracu? Se il vecchio legge questa cosa finisce come a Market-Garden [NDR: fa riferimento alla nota operazione]: è meglio che io riscriva tutto da capo. In seguito porterò il plico a Trudy [NDR: la segretaria di Ike, molte voci piccanti sorsero sul suo rapporto col generale].
5 febbraio 1945 - [...] Dopo la telefonata con Monty, il vecchio chiede i rapporti di Donovan. E' il mio foglio riveduto e corretto. Legge ad alta voce: "La resa dell'Italia è uno sporco affare. Tutte le nazioni elencano nella loro storia guerre vinte e guerre perse, ma l'Italia è la sola ad aver perduto questa guerra con disonore, salvato solo in parte dal sacrificio dei combattenti della R.S.I. - Firmato: Barracu". Si rivolge a me e a Mike coll'aria di chi non sa che pesci pigliare. Urla con tutto il fiato che ha in gola: "Che c.... significa! Fammi venire qui Donovan!" Sto per uscire, ma poi mi richiama con la voce ancora ansimante: "Anzi, Harry (quando mi chiama così so già cosa vuole, e penso fra me e me che la sfuriata è finita), mandami qui il sgt. Johnson!". Saluto ed esco sollevato. Entro nell'anticamera e dico ad alta voce: "Sergente Johnson! Sergente Trudy Johnson! Il generale la desidera!". Trudy mi osserva interrogativa, ma quando le dico che il vecchio è nervoso si rilassa. Uscendo incrocio Omar [NDR: Omar Bradley]. Gli dico: "Buongiorno generale! Il generale Eisenhower adesso è impegnato. Ne avrà per almeno una mezz'ora." [...]"
Finalmente siamo riusciti a svelare l'arcano della frase di Ike Eisenhower, facendo un servizio alla Storia (con la S maiuscola) e inquadrandola nel suo giusto contesto.

 
INNO ALLA GLORIA DEI VINTI
Walt Whitman
 
 
«Io vengo con sonora musica,
con trombe e con tamburi,
non per sonar le marce
dei vincitori illustri,
ma per cantar la Gloria
degli uomini vinti e Caduti.
Vi hanno detto che era bene
vincere la battaglia?
Io vi dico che è bene altresì
soccombere, e che le battaglie
si vincono e si perdono
con identico cuore!
Io faccio rullare i tamburi
per tutti i Morti, e per Essi
faccio squillare le trombe
in tono alto e lieto!
Viva coloro che caddero,
viva chi perde i propri vascelli!
Viva coloro che affondano con
essi e non perdono l'onore!
Viva tutti i generali sconfitti
e tutti gli Eroi schiacciati
cui la sconfitta
non può togliere la Gloria!»
 

«MEGLIO SUDDITO DEL SOL LEVANTE CHE ITALIANO E VOLTAGABBANA» L'incredibile storia di un marinaio italiano che dopo l'armistizio del ‘43 decise di combattere con i giapponesi e ora riceve anche la pensione di guerra.
Francobaldo Chiocci
 
 
    Ti capita, per caso, di sbirciare sul tavolo di redazione una pagina interna di un quotidiano formato tabloid e siccome, inaspettatamente, l'argomento ti intriga, la divori tutta intera.
    Non si tratta del solito, seppure appetitoso, riempitivo a cavallo di Ferragosto, quando i redattori capo, a corto di attualità eclatanti, utilizzano i fondi di cassetto e riscoprono episodi remoti. E’ viceversa, l'incredibile storia, avventurosa, romantica e polemica, di un marinaio italiano che, nell'autunno del 43, arriva a Singapore col suo sommergibile (il Cappellini) spedito sin laggiù in missione segreta senza sapere che, nel frattempo, in Italia c'è stato l'armistizio. Il «re traditore» e il generale Badoglio hanno ribaltato le alleanze. Cosicché, invece di esser festeggiato col resto dell'equipaggio dai giapponesi in attesa (i precedenti alleati), il sommergibilista viene posto di fronte all’alternativa di finire in un campo di concentramento oppure di continuare a combattere contro gli angloamericani. «E così mentre gli ufficiali si dichiarano fedeli al re e a Badoglio, tutti gli altri gridano "Viva Mussolini"... ». Tra costoro c'è il nostro, che oltre tutto ha dalla nascita un nome magniloquente da onorare: si chiama Raffaello Sanzio. Non solo, ma siccome «è tra i più convinti e, soprattutto, è anche bravo», i giapponesi lo arruolano e lo vestono con la loro divisa. Mai vestizione fu più coinvolgente. Raffaello Sanzio non solo aderì, ma diventò suddito del Sol Levante. E cambiò anche nome, diventando Sanzio Kobayashi. Con le insegne della marina nipponica tornò a bordo del Cappellini ribattezzato J 505 e, insieme con altri due sommergibili «collaborazionisti», il Giuliani e il Torricelli, combattè valorosamente come affondatore nel Pacifico. Tra l'altro, durante un bombardamento sul porto di Kobe, riuscì a salvare il suo sommergibile portandolo al largo e anche ad abbattere una fortezza volante col cannoncino di coperta. La quale impresa gli fruttò un'alta onorificenza imperiale.
    Ora il fu Raffaello Sanzio ha 78 anni, è un pensionato di guerra del governo giapponese e vive con la moglie, i figli e i ricordi in una casetta di Yokohaina, da dove lancia i suoi anatemi verso gli ex connazionali e le istituzioni vili (la Marina, l'ambasciatore...) che continuano a considerarlo un reprobo. E tuona: «Questo è un popolo con le palle, altro che voi in Italia. Qui la gente è morta sino all'ultimo per la causa, e lo Stato in qualche modo se ne ricorda. In Italia chi ha fatto il suo dovere è stato tradito, umiliato, abbandonato. Vergogna!».
    Il paginone, estrapolato dal resto del giornale e dedicato alle imprese e ai livori di Raffaello Kobayashi, provoca un primo trasalimento politico. Ovviamente pensi che a pubblicarlo sia il Secolo d'Italia, quotidiano di Alleanza nazionale, nonostante che da tempo, sotto la guardinga guida di Gennaro Malgeri non indulga più a riesumazioni patriottiche dei fedelissimi che scelsero l'onore anche a guerra perduta.
    E immagini pure che tanto ritrovato ardimento dipenda o dal direttore in vacanza anche lui ad Anzio, oppure da un surrettizio nostalgico che profitta delle distrazioni di Ferragosto per rifilare amarcord sciovinisti. Tanto più che nelle recriminazioni del samurai ad honorem oriundo italiano c'è un distinguo che compromette il capo. «Se non fosse per quel galantuomo di Fini che mi ha già scritto due volte e ha promesso di aiutarmi insieme all'on. Tremaglia - dichiara l'ex sommergibilista, condiviso dal giornalista che lo intervista - io in Italia non ci rimetterei più piede. Un Paese che tradisce i suoi figli non ha il diritto di essere amato».
    Errore, abbaglio, non è il Secolo d'Italia di Gennaro Maglieri e di An ad indulgere a questo antiquariato acrimonioso. E’, sorpresa delle sorprese, Il manifesto di Luigi Pintor, che ancora si etichetta come «quotidiano comunista». Non solo, ma il servizio a tutta pagina da Yokohama è firmato soltanto con una sigla, P. D'E., il che lascia supporre, oltre a una condivisione anche una rielaborazione redazionale.
    Anche il titolo non ammette equivoci e fa trasparire simpatia e solidarietà. L'italiano nella giungla - «L'Italia che ho servito in guerra mi ha tradito. Ora sono giapponese a tutti gli effetti. I miei figli non faranno mai il militare in un Paese comunista». Un sommarietto, stampato in negativo su una bella foto di una coppia giapponese davanti a un monumento ai caduti, informa: «Ha 78 anni e vive con i figli in Giappone. E’ indignato con l'Italia perchè la Marina lo considera un traditore». Nel testo si riferisce che gli è stato sinora rifiutato il riconoscimento di combattente e, di conseguenza, la pensione perchè «Sanzio risulta assente ingiustificato dal settembre '43 all'agosto '45, un eufemismo che sta per traditore». In compenso ironizza l'articolista, che si produce in una denuncia tipica della vecchia destra combattentistica che leggeva Navi e Poltrone di Trizzino contro le fellonie e le inefficienza degli ammiragli anglofili «nel Maggio 1992 è stato nominato "secondo capo" e lo scorso aprile ha addirittura ricevuto il congedo definitivo».
    Non bastasse, “il manifesto” ha uno strale largamente postumo contro il ribaltone badogliano: «Pochi lo sanno, ma l'Italia, alla fine del settembre '43 dichiarò guerra anche al Giappone. Una decisione puramente opportunistica, suggerita dall'allora ambasciatore italiano a Washington, secondo il quale la dichiarazione di guerra avrebbe garantito all'Italia, se non un posto, uno strapuntino alla Conferenza di pace di San Francisco. Naturalmente non andò così. L'Italia dichiarò guerra, ma l'unico effetto fu quello di peggiorare la già precaria situazione dei residenti italiani in Giappone, che da semplici "codardi" divennero nemici e come tali trasferiti da comode residenze in veri e propri campi di concentramento.
    Né manca la polemica d'attualità. “Il manifesto” fa sue, giustamente, le proteste di Sanzio Kobayashi contro il nostro ambasciatore a Tokio, che affida servizi di ristorazione a un ex cambusiere di un mercantile che «per ingraziarsi i favori dell'ambasciata italiana ha persino presentato un curriculum falso, in cui cita navi su cui non è mai salito, posti che non ha mai ricoperto» mentre lui, l'ex combattente, viene accuratamente schifato. L'ultimo affronto l'ha ricevuto in occasione del tradizionale ricevimento del 2 giugno. Pur non essendo stato invitato, Sanzio si è presentato lo stesso. «Dopo lunghe e umilianti contrattazioni, si legge sull'indignato “manifesto” il carabiniere di servizio gli ha comunicato che lui sarebbe potuto entrare, ma la moglie, cittadina giapponese, no. Questo, in un'ambasciata dove, durante questo tipo di ricevimenti, gli "imbucati" superano spesso gli invitati ufficiali». E pensare che l'indignazione di un giornale come “il manifesto” dovrebbe essere esattamente l'opposta: cioè se l'invito fosse stato rivolto a un ex repubblichino che combattè con il Mikado e per il patto tripartito (... ).
 
 
IL GIORNALE Quotidiano. 18 agosto 95.

"ANZIO COME BAGDAD, ECCO PERCHE’ DECISI DI COMBATTERE" Un volontario della Repubblica Sociale ricorda la sua scelta: "Sapevo che la guerra era persa, ma non sopportavo l’idea del tradimento"
Barbara Palombelli
 
  
    ROMA - «Sapevo che la guerra era persa, dopo il 25 luglio e l'8 settembre... Ma non sopportavo l'idea del tradimento. Mi dava fastidio questa storia italiana per cui, ogni volta che le cose si mettono male, noi passiamo dall'altra parte, ci mettiamo sempre con i più forti. Avevo diciassette anni, dovevo completare l'ultimo anno di ragioneria a Udine, dove vivevo con la mia famiglia. Noi - allora - non sapevamo nulla dei campi di sterminio, dell'Olocausto, eravamo veramente alla periferia del Paese. Era l'inverno del '43: scappai di casa di notte, volevo andare a fare la mia parte, mi arruolai volontario con i paracadutisti della Folgore.
    Mio padre disse che non mi avrebbe mai perdonato ... ».
    Le immagini delle guerre e delle liberazioni sono sempre uguali. C'è un Paese che entra nel caos, ci sono monumenti e statue da abbattere, c'è chi sale sul carro armato dei vincitori, c'è chi arraffa quello che può, chi scappa alla ricerca di una nuova identità. E c'è chi ritiene di dover restare fedele a dei valori, proprio nel momento in cui vengono dichiarati fuorilegge e sconfitti... Il soldato semplice Luciano Orsettigh, classe 1926, è oggi un signore in pensione che ama leggere libri, passeggiare con la sua cucciola terrier, comunicare con il mondo dalla sua stanza con una radiotrasmittente potentissima. Di politica non si è mai occupato, «e non sono mai stato neanche un fazioso, mai portato la camicia nera... ero un giovane innamorato della mia patria e volevo difenderla fino all'ultimo. Per questo ideale, ho pagato un prezzo alto: sono stato per due anni prigioniero degli americani, insieme a migliaia di italiani che forse oggi, vedendo le immagini in televisione ... stanno ricordando, come me, tempi lontani».
    Orsettigh fu fatto prigioniero dalla Quinta divisione americana proprio all'alba del 4 giugno 1944, il giorno della liberazione di Roma: «Dopo qualche mese di addestramento in Umbria, alle Fonti del Clitunno, fui destinato alla settima compagnia della Folgore, nella primavera del '44, fummo spediti al fronte, ad Anzio. Eravamo 110-120, tutti volontari, tutti giovanissimi. I nomi di tutti, oggi, è impossibile ricordarli... C'era un Fiocchi, figlio della dinastia di imprenditori delle munizioni. C'erano i fratelli Civita, romani, rossi di capelli come me, c'era Camuncoli, figlio di un giornalista del Corriere della Sera. Tre mesi di trincea di campagna fra Roma e Anzio, senza caserme né tende. Per dormire, c'era una grotta, andavamo lì a turno. Gli americani avanzavano dal mare verso Roma e noi dovevamo rallentare il loro cammino, a costo di essere distrutti. Di quei 120, restammo vivi in sei. Sapevamo che era una missione disperata: saremmo finiti o morti o prigionieri. L'ultimo ordine che ricevemmo, il 2 giugno, era quello di coprire la ritirata delle altre truppe e delle prime linee tedesche che arretravano: dovevamo tenere il fronte per 24 ore e poi ritirarci anche noi. Noi rimasti vivi, al calar della notte, scadute le 24 ore, cominciammo a tornare indietro per ricongiungerci ai soldati già andati via. Eravamo stanchissimi, ci fermammo in una cascina abbandonata, lasciata dall'antiaerea tedesca. Al risveglio, una cannonata sul tetto ci avvertì che era arrivato il momento di uscire a mani alzate: lungo la strada, scendendo dalla collina, ricordodo come fosse ieri le decine di carri armati che, infila, stavano per arrivare nella capitale».
    Sessant’anni fa, quando eravamo noi un popolo da liberare, con un regime a pezzi e un esercito allo sbando, gli americani fecero prigionieri circa 55 mila italiani, di cui 6 mila scelsero di non collaborare. Orsettigh mi mostra il libro scritto da Gaetano Tumiati nel 1985 (Prigionieri in Texas, Mursia, ndr), dove è raccontatacontata l'esperienza della detenzione: «Ci ritrovammo improvvisamente a migliaia in un campo di concentramento a Hereford, su un altopiano ai confini con il New Mexico. Arrivai là dopo mesi di prigionia in Africa e dopo un lunghissimo viaggio nella stiva di una nave, sbarcammo in Virginia e poi attraversammo in treno quasi tutti gli stati del Sud... Ad Hereford c'erano anche il pittore Alberto Burri, lo scrittore Giuseppe Berto, c'erano persone diverse, dai monarchici ai liberali 'non c'erano solo i nostalgici... eppure, gli americani lo chiamavano il "Criminal Fascist Camp". Indossavamo divise con scritto ovunque PW, prigioniero di guerra. Quelli che collaboravano, invece, avevano la divisa militare americana e una bandierina italiana cucita sul braccio, potevano uscire, frequentare donne, alcuni poi si sposarono le fidanzate di allora. Noi no, noi eravamo sempre chiusi, nel cuore della notte capitava anche qualche legnata, facevamo la fame, al mattino una tazza di caffelatte in polvere e due fettine di pane di riso... Per guadagnare 80 centesimi al giorno e mangiare due panini bisognava lavorare: ho raccolto patate fino a spezzarmi la schiena, in una farm a un'ora di camion dal campo, era l'unico modo per comprarsi le sigarette e le lamette per radersi».
    Quando la guerra finisce, i collaborazionisti vengono liberati subito. Gli irriducibili ci impiegano quasi un anno per tornare a casa: 
    «Mancavo da tre anni, arrivai nel 1946 - racconta Orsettigh - e mi avevano dato per morto... Mio padre riuscì a perdonarmi. Ritrovai, per una notte, i miei amici. Non avevo ancora disfatto il mio sacco, che vennero a prendermi i carabinieri. Mi aspettavano altri due mesi di galera, per ragioni ancora oggi misteriose: un altro campo di concentramento, italiano, con tende canadesi piantate nel fango, dalle parti di Arezzo». Grazie a quella difficile esperienza, Luciano Orsettigh conquistò un inglese perfetto. «Mi servì per trovare un lavoro. Da uomo libero, finalmente, scelsi di lavorare per qualche anno proprio alla base americana di Cormons. Indossavo la loro divisa e organizzai l'arrivo di 5 mila americani a Trieste. Dalla tuta grigioverde della Folgore, però, tagliai una striscia di stoffa. Per me, che non sono un uomo di destra, ha sempre avuto una grande importanza, c'è dentro ancora oggi il senso del dovere che mi ha portato a quelle scelte. C'è scritto: "Per l'onore d'Italia". Mi sembra un buon motto, anche sessant'anni dopo».
 
 
IL CORRIERE DELLA SERA Quotidiano del 14 Aprile 2003

NOI E LORO. UNA PICCOLA DIFFERENZA CHIAMATA ONORE
Nino Arena
 
 
La faziosità è dura a morire; la menzogna, soprattutto se finalizzata a radicalizzare un fatto arbitrario ha radici profonde; l’invito ai chiarimenti, se presuppone la fine del teorema illegalmente costruito per convalidare la falsità, viene di norma respinto. Poi tutto torna nel dimenticatoio ed ognuno si tiene le sue convinzioni cullandosi nell’ipocrisia e nella malafede. Talvolta, allorché vengono a mancare le motivazioni per controbattere accuse e invenzioni, si fa strada timidamente la loro "verità’’ riportata pedissequamente nelle occasioni, populiste e demagogiche, non di rado sui libri di testo, quasi sempre reperibile nella bibliografia resistenziale di comodo stampata dai grandi circuiti editoriali, nella speranza che "il luogo comune’’ si trasformi in "verità’’ storica: il gioco è fatto! Dovranno sopravvenire dirompenti eventi esterni, come accadde col muro di Berlino, per smantellare l’architrave della menzogna, meglio se originati al di fuori dell’Italia, in quanto ritenuti più credibili, attendibili, affidabili.
Molti anni or sono ho dovuto lottare contro un clan di pseudo storici (di parte) che, in contrasto col responso di una apposita commissione governativa, rifiutavano di accettarne le decisioni per malafede (leggasi: in contrasto con la loro ideologia). Si trattava del bluff sui fatti di Leopoli, di cui lo scrivente - per primo e con mesi di anticipo sulle conclusioni della commissione - denunciava il falso organizzato dal PCUS con la complicità di un giornalista comunista polacco.
Ogni tanto qualcuno si sente in diritto di emanare sentenze, forte, a suo parere, di trovarsi dalla parte "vincente’’; una ridicola convinzione poiché è risaputo che l’Italia ha perduto la 2ª guerra mondiale, che non ci sono stati vincitori e quelli che ritengono di essere tali sono soltanto poveri illusi, vissuti da sempre nella loro persuasione, nel loro sogno donchisciottesco ben al di fuori della realtà.
Una frase recentemente pronunciata da un personaggio di questo effimero clan di Soloni, ci ha colpito particolarmente: "... l’accostamento con la RSI non sarà gradito da noi veterani delle FF.AA. regolari (badogliani, tanto per precisare chi sono); una sottile distinzione per prendere le distanze dai partigiani, e precisava ancora: "Nel dopoguerra le faccende non si sono per niente chiarite, tant’è vero che i reduci della RSI ostentano ancora nelle celebrazioni la scritta Per l’Onore d’Italia. Una strana pretesa da parte del badogliano, che pensa di dettare condizioni e stabilire regole di comportamento, quasi che i reduci della RSI dovessero vergognarsi di tale "ostentazione’’.
Noi siamo di parere contrario, poiché gli atti compiuti da coloro che militarono al sud non sono sempre motivo edificante di ammirazione e ostentazione. Molti avvenimenti non possono essere accettati come atti onorevoli di cui vanagloriarsi e con loro attruppiamo i miserevoli individui del CLN che segnalavano agli aviatori alleati gli obiettivi da colpire (quasi sempre centri abitati); segnaliamo ancora la miseria morale degli uomini del Partito d’Azione che parlavano durante la guerra da Radio Londra contro l’Italia e che l’articolo 16 del trattato di pace salvò immeritatamente. Non sono atti di cui vantarsi gli aiuti militari italiani forniti a Tito - sanguinario despota balcanico - e da questi usati criminosamente per la pulizia etnica degli italiani, non sono atti ammirevoli quelli dati dalla marina cobelligerante alla Royal Navy permettendogli di affondare il "Bolzano’’ per pareggiare la notte di Alessandria; non sono atti meritevoli i bombardamenti dell’aviazione del sud in Istria su zone abitate da italiani; non sono episodi da ricordare nella storia, le uccisioni e i maltrattamenti verso i soldati della RSI uccisi o catturati in azione da reparti badogliani, così come sono da dimenticare le leggi liberticide, vessatorie e discriminanti applicate verso i combattenti della RSI, ancora oggi considerati come invalidi civili, valorosi mutilati degni di rispetto e attenzioni.
Non si può imporre la democrazia come modello comportamentale per poi rinnegarne i principî con atti contrari, così come non è accettabile imporre discriminatorie settarie nei confronti di coloro che a fine guerra si trovarono dalla parte perdente. Si finirebbe per perdere la faccia e rinnegare teorie libertarie applicabili a senso unico.
I soldati della RSI avevano scelto e combattuto sino all’ultimo per cancellare il tradimento badogliano (non il tradimento dei soldati o dei cittadini italiani, vittime ugualmente delle decisioni di pochi irresponsabili); lo avevano fatto per tentare di riscattare l’onore d’Italia infangato dai congiurati. Se altri ritengono che tale comportamento vada cancellato o dimenticato per compiacere coloro che implicitamente li osteggiavano, sappiano che la storia ha condannato i traditori, non i traditi.
Le frasi incriminate fanno parte di un maldestro tentativo inteso a prevaricare la libertà di pensiero (grave per un preteso paladino della libertà) di un amico che in perfetta buonafede aveva iniziato a raccogliere elementi di giudizio, testimonianze e documenti su una possibile pubblicazione sulle vicende postarmistiziali della divisione "Nembo’’. L’intervento, invece, mirava a perpetuare con pesante pressione personale (riteniamo) una pretesa differenza morale e ideologica, di pensiero e di idealità fra i paracadutisti del nord e quelli del sud, che avevano militato nella stessa unità prima e dopo l’armistizio, alcuni dei quali si erano inaspettatamente riscoperti "democratici e antifascisti’’ soltanto a posteriori e temevano il "contagio’’, o quanto meno il pericolo di essere allineati sullo stesso piano fra coloro che avevano accettato supinamente l’armistizio - servendo i Savoia e Badoglio - e gli altri che invece lo avevano rifiutato come immorale e che intendevano opporsi nel tentativo nobile ma difficile di riscattarne col sacrificio l’aspetto d’immagine vilipesa che il tradimento aveva appiccicato all’Italia.
Il problema meritava indubbiamente una precisazione, se non altro per far conoscere meglio la posizione ideale della parte che aveva scelto il nord e il riscatto dell’onore e coloro che invece si erano trovati al sud, non per libera scelta (molti settentrionali avrebbero sicuramente optato per combattere col nord) ma per collocazione geografica, obblighi militari, situazioni contingenti (molti al nord vissero questo problema) sicuramente non per motivazioni ideologiche o scelte politiche, considerando oggettivamente che la "Nembo’’ annoverava fino all’armistizio una larghissima percentuale di personale politicizzato, non tanto nella visione ortodossa e limitata del credente quanto nell’aspetto individuale di far parte di un Corpo d’élite che da sempre (lo si verifica ancora oggi ingiustificamente) ha nell’amor di Patria, nel dovere militare, nel sentimento nazionalista e nella purezza della gioventù nata e vissuta sotto il fascismo, sicuri pilastri di forza morale e affidabilità.
Nessuno di loro conosceva la definizione di democrazia, sapeva di battersi per la libertà, contestava apertamente il fascismo, anche se in quel periodo aleggiava un sottile ma avvertito malessere causato dal crollo del fascismo e dei suoi postulati ideologici; c’era confusione morale fra tutti gli italiani, si accertava la presenza di una stanchezza diffusa fra la popolazione e le FF.AA. causata da avvenimenti interni e dal negativo andamento del conflitto.
Esaminiamo i fatti e accertiamo quanto di vero esisteva nella "Nembo’’ in quel particolare periodo.
Al momento dell’armistizio l’unità frazionata fra Calabria e Sardegna contava circa 10.500 uomini in servizio di cui circa 7.000 paracadutisti, 1.200 militari dei servizi e 2.300 fra artiglieri, carristi e genieri aggregati alla "Nembo’’ per esigenze difensive territoriali. Abbandonarono l’unità i Btg. 3°, 12° e reparti minori dei Btg. 13°/14° passati poi alla RSI; 600 paracadutisti ritenuti politicamente inaffidabili furono internati nel campo di disciplina di Uras (Cagliari); altri 410 sospetti di simpatie fasciste furono radiati dai paracadutisti e assegnati ai Rgt. di fanteria 45° e 236°; altri 300 vennero distribuiti ad altri reparti e una trentina di ufficiali - fra cui il vicecomandante divisionale, il valoroso Folgorino Col. Pietro Tantillo - furono imprigionati, processati e infine prosciolti dall’accusa di "rifiuto per coerenza etica di sparare sui reparti tedeschi’’. Il resto si era sbandato. Una perdita complessiva di oltre 3.000 uomini che riduceva la "Nembo’’ a poco più di 4.000 paracadutisti con alcune centinaia di militari dei servizi.
Non mancarono le uccisioni isolate, gli atti di violenza, le ribellioni aperte. Da una parte si ebbe l’uccisione ingiustificata e involontaria del Ten. Col. Alberto Bechi Luserna-Capo di SM-ucciso da paracadutisti aderenti alla convalida del patto d’alleanza con la Germania. Venne decorato di Movm alla memoria. Gli autori identificati, furono processati nel dopoguerra e condannati a pesanti pene detentive. Dall’altra parte si ebbe l’uccisione ingiustificata ma volontaria del maresciallo Pierino Vascelli - valoroso libico e Folgorino-addetto allo SM divisionale, assassinato da ignoti per punire la sua ostentata fede fascista. Vascelli non ebbe alcuna decorazione, non ebbe un processo poiché i suoi assassini rimasero ignoti, coperti criminosamente dall’omertà. Due pesi e due misure che gridano giustizia e di cui ben pochi conoscono i retroscena.
Non risponde quindi al vero che la "Nembo’’ disponeva nel 1944 di 10 battaglioni paracadutisti, poiché era stata ristrutturata su 5 Btg. e 2 gruppi artiglieria, reparti minori e non superava le 4.000 unità allorché venne inserita nel CIL (Corpo Italiano di Liberazione) poiché altri 250 paracadutisti furono assegnati a reparti logistici (leggasi salmerie della 210a Divisione).
Al nord, invece, furono costituiti 3 Btg. paracadutisti arditi e un Btg. allievi; un Btg. N.P. (Nuotatori Paracadutisti) della Xª MAS e un Btg. paracadutisti della GNR ("Mazzarini’’) per circa 3.800 paracadutisti in gran parte volontari. Nel 1945 si ebbero altre trasformazioni: al sud venne disciolta la "Nembo’’ sostituita col Gruppo da combattimento Folgore con un Rgt. paracadutisti su 3 Btg. nuclei sparsi di paracadutisti fra il Rgt. artiglieria e i reparti genieri. Complessivamente non più di 3.000 paracadutisti oltre ad un centinaio di parà assegnati allo Squadrone F alle dirette dipendenze del comando XIII° Corps inglese.
Al nord, oltre ai precedenti reparti già accennati, si ebbero 2 Cp. autonome e reparti indipendenti composti da complementi, dal personale del disciolto gruppo artiglieria "Uragano’’ e dagli istruttori della scuola di Tradate; dal personale del gruppo speciale sabotaggio "Vega’’ e NESGAP della Xª MAS, dal Btg. NP e dal "Mazzarini’’. Complessivamente circa 4.000 uomini superiori, per organici e reparti costituiti, a quelli del sud. Nessun vantaggio numerico o per organici, quindi, sufficiente per affermazioni fuori luogo e giustificare maggiore importanza psicologica come avventatamente dichiarato dal nostro censore sudista. Anzi, una situazione a favore della RSI.
Alcune precisazioni merita anche l’aspetto morale e giuridico, considerando obiettivamente l’illegittimità del governo Badoglio secondo giuristi e costituzionalisti affermati, nato da un colpo di Stato e mai convalidato dagli enti istituzionali. Semplicemente, come quello della RSI un governo di fatto ma del tutto arbitrario come aspetti decisionali, considerando che era scappato al sud con due soli riluttanti ministri militari (altri 12 ministri erano stati abbandonati a Roma), che si era trovato brutalmente al cospetto delle strutture amministrative create dagli alleati: AMGOT e ACC, cui doveva ubbidienza assoluta senza alcuna recriminazione, col territorio nazionale rigidamente controllato dai funzionari angloamericani (soltanto nel 1944 furono consegnate quattro province pugliesi (Lecce, Bari, Taranto e Brindisi) all’amministrazione badogliana. Badoglio fu costretto persino a utilizzare i comandi militari in assenza di strutture civili per applicare un minimo di legalità e ordine nel caos postarmistiziale, proclamando la legge marziale con i poteri riservati ai militari, con l’assurdo giuridico e offensivo, di emanare ordinanze agli italiani da parte di comandi militari italiani, come avveniva nei territori nemici occupati.
Ciò non impedì allo stesso Badoglio di emanare ordini suicidi per attaccare i tedeschi ovunque, col risultato nefasto di privare i soldati italiani delle garanzie internazionali dovute allo status armistiziale, trasformandoli in franchi tiratori, col risultato di farli uccidere impunemente dai tedeschi per dovute legali rappresaglie, come fatalmente accaduto a Cefalonia, Balcani e Lero. Un totale di 45 mila soldati uccisi ingiustificatamente nel dopo armistizio. Fu necessario l’intervento di Eisenhower a Malta il 29 settembre, che consigliò prima e intimò poi a Badoglio di far cessare le uccisioni, ripristinando lo status giuridico internazionale col dichiarare guerra alla Germania, cosa questa che avvenne il 13 ottobre successivo.
Resta ancora da chiarire il significato di cessare le ostilità "per impossibilità materiale di continuare la guerra "come dichiarò Badoglio all’armistizio, per poi ritrovare miracolosamente volontà e capacità operativa con la proposta di "passare armi e bagagli con gli anglo-americani’’ alla pari, come ingenuamente pensarono i congiurati come fosse la cosa più semplice del mondo, nella convinzione di ritenersi indispensabili e quindi di dirigere il gioco. Gli alleati respinsero invece sdegnosamente ogni ipotesi di alleanza (l’Italia non venne mai considerata alleata dalle Nazioni Unite, ma più dimessamente "nazione cobelligerante’’ di nessuna importanza giuridica e operativa) e l’offerta fatta da Badoglio sulla "Nelson’’ di concedere la "Nembo’’ venne ugualmente respinta (confronta al proposito la testimonianza dell’interprete ufficiale italiano Magg. Carlo Maurizio Ruspoli (fratello dei folgorini Marescotti e Costantino).
Cosa rimane dunque come argomenti per trattare con sufficienza e distacco i reduci della RSI? Riteniamo ben poco, se non il disagio inconfessabile di aver militato agli ordini di simili traditori che hanno meritato il disprezzo delle genti, anche a livello internazionale, e la squalificante etichetta di opportunisti.
Pochi giorni or sono, in una intervista concessa ad un giornalista del "Giornale’’, Indro Montanelli - che non può essere certamente accusato di simpatie fasciste, pur non rinnegando il suo passato politico - disse a proposito di Badoglio, alla domanda di come si sarebbe comportato personalmente l’otto settembre: "Io avrei fatto esattamente quello che fece il maresciallo Mannerheim Presidente della Finlandia, allorché fu costretto per totale impossibilità fisica, morale e materiale dovuta a cinque anni di guerra durissima, a continuare a combattere, chiedendo un armistizio all’URSS che premeva alle frontiere della Finlandia, abbandonando l’alleanza col Tripartito e la collaborazione militare con il Reich. Mannerheim spiegò ai tedeschi la sua situazione e li invitò ad abbandonare al più presto il territorio finlandese, cosa che si verificò regolarmente senza particolari problemi. Disse così, il decano dei giornalisti italiani, e aggiunse che deprecava il metodo usato da Badoglio - subdolo e inqualificabile - le riserve mentali, le occulte intenzioni dei congiurati, i tentativi umilianti di saltare sul carro dei vincitori.
Per concludere, spendendo due parole sull’aspetto morale, comprendiamo e giustifichiamo il dramma personale vissuto da migliaia di italiani rimasti al sud, consideriamo valido il rispetto del dovere militare, non accettiamo certamente l’abuso fatto a posteriori di presentarsi e di considerarsi "combattente per la libertà’’ quasi fosse una etichetta di squadrista antemarcia, come accadde con Mussolini, ma soltanto una convalida artificiosa che significava - se accettata implicitamente - complicità morale. "Ho dovuto ubbidire agli ordini di Badoglio e Messe, ma il mio cuore e la mia fede erano al nord con la Repubblica Sociale Italiana’’ dissero molti veterani del sud. "Il giorno che decisi di disertare venni ferito’’ dichiarò un paracadutista della "Nembo’’ oggi affermato medico a Roma. "Mi legarono ad un albero in prima linea perché mi ero rifiutato di sparare contro i tedeschi. Speravano che questi mi avrebbero ucciso come bersaglio indifeso; invece i tedeschi capirono la situazione e mi risparmiarono’’ disse un veterano del 16° Btg. Molti ancora, opposero pretestuosamente il giuramento fatto al Re come ostacolo morale alla loro adesione; ma nessuno seppe che il giuramento non aveva più alcuna validità poiché era stato infranto per primo dal Re, violando la Costituzione, che parlava del giuramento prestato dal sovrano "nel bene indissolubile del Re e della Patria’’. Ma soltanto pochi obbedirono sino all’ultimo allo spirito di tale giuramento e fra questi il vecchio generale Ercole Ronco, comandante della "Nembo’’, il Col. Camosso folgorino e il Ten. Col. Felice Valletti Borgnini - anch’esso folgorino - che preferirono abbandonare la vita militare al momento in cui Umberto di Savoia abdicò e partì per Lisbona. Gli altri transitarono senza particolari patemi d’animo dalla monarchia alla repubblica, scoprirono una nuova fede e fecero carriera.
Noi, dunque, rappresentiamo per diritto acquisito la continuità ideale fra la gloriosa Folgore di El Alamein e il paracadutismo della RSI: stessi ideali, stessi nemici, stesse conseguenze. Erano gli stessi nemici con l’elmetto a scodella che uccidevano i folgorini nelle sabbie egiziane e massacravano i ragazzini alla difesa di Roma; erano per noi i nemici di sempre, quelli del primo giorno di guerra e dell’ultimo giorno, quando ci sorvegliavano e ci angariavano nei campi di prigionia. Di esempio i folgorini comandanti Izzo e Valletti che combatterono con la Folgore a El Alamein, fianco e fianco con i parà germanici di Ramcke, non sapendo che un giorno si sarebbero scambievolmente uccisi sulla "Gotica’’ nella primavera del 1945, quando Badoglio e le circostanze li avrebbero messi l’uno contro l’altro. Questo mi disse nel dopoguerra Giuseppe Izzo, quando dovette battersi per salvaguardare il suo dovere di soldato contro il suo amico Hubner a Grizzano, un camerata che aveva condiviso con lui, in Egitto, le speranze, l’acqua e le munizioni contro i Tommy’s di Montgomery. A Grizzano si guadagnò una Movm, ma avrebbe sicuramente preferito meritarsela a El Alamein battendosi contro gli inglesi. La sua carriera militare si bloccò a Palermo, nel dopoguerra, allorché rifiutò di stringere la mano di Pacciardi, Ministro della Difesa, da Lui tacciato di "traditore della Patria’’.
Valletti Borgnini si battè coerentemente col suo dovere militare contro il reggimento Bomhler sulla "Gotica’’, pur avendo il padre generale nell’esercito della RSI e il fratello minore Luciano, compagno di corso dello scrivente alla scuola AA.UU. di Varese, giovane sottotenente della GNR (morirà a Coltano per malattia non curata dal detentore USA). Una tragedia familiare, lacerante, in cui il senso del dovere fu più forte degli affetti privati. Ma forse questi fatti non influiscono sulla sensibilità del censore intento a spargere l’apartheid fra i parà, dimenticando che essi furono i primi ad abbracciarsi a guerra finita, riconoscendosi come fratelli, non come nemici o soldati di classe inferiore. Ci auguriamo soltanto che quando in futuro vedrà nelle celebrazioni i paracadutisti della RSI ostentare orgogliosamente l’insegna di "per l’Onore d’Italia’’, comprenda cosa significò per centinaia di migliaia di soldati italiani quel motto e quell’impegno che vide oltre centomila caduti, quarantacinquemila feriti e mutilati, novantamila imprigionati in campi POW fra Algeria, Francia, Italia e USA e nelle patrie galere. Oltre trentamila i processati per "collaborazionismo col tedesco invasore’’ (erano soltanto i nostri alleati con cui avevamo sottoscritto un patto militare nel 1939). A questi dati statistici aggiungiamo il milione e mezzo di italiani epurati e messi alla fame, per completare il quadro; molti i suicidi, migliaia gli emigrati nel mondo, centinaia i dispersi nella Legione fra Indocina e Algeria "mort pour la France’’, un intero popolo diseredato da leggi antifasciste volute dal CLN con l’avallo di Umberto di Savoia che le firmò, mentre i "vincitori’’ si spartivano fraternamente posti di lavoro, ricevevano lucrose pensioni, sussidi, elargizioni, premi di smobilitazione, vitalizi, ricompense (anche al valore militare come accadde per Via Rasella). E gli altri? Alla fame o proscritti come appestati, come decretato dagli alpini partigiani con una vergognosa apartheid nostrana immorale e ingiustificata creata ad hoc.
Di certo Noi non abbiamo vestito i panni del nemico di sempre, non abbiamo avuto l’elmetto a bacinella, poiché era remota per i folgorini, in quanto inaccettabile, l’ipotesi che un giorno altri parà avrebbero vestito all’inglese, sarebbero stati da loro armati e si sarebbero schierati al loro fianco per combattere gli ex alleati ormai nemici, e se capitava (come in realtà si verificherà) anche altri italiani.
Badoglio aveva creato le premesse della guerra civile, provocato una frattura nelle coscienze, creato una divisione dei corpi e delle anime. Poi la nemesi storica si riprese la sua rivincita: Badoglio venne estromesso ed emarginato come cosa inutile ("usa e getta’’ si direbbe oggi); il suo Re, mortificato, umiliato dai vincitori e malvisto dai partiti del CLN andò in esilio in Egitto; suo figlio, strumentalizzato dai politici antifascisti, firmò decine di inique leggi persecutorie contro i soldati della RSI, poi, anch’egli ormai inutile, venne costretto a lasciare l’Italia.
Tutto ciò non toglie nulla al valore dimostrato in battaglia dai paracadutisti del sud poiché nomi di località come Ascoli Piceno e Macerata, Tolentino e Aquila, Chieti e Filottrano, Grizzano e la Herring furono altrettante tappe di una lacerante partecipazione fra il dovere militare e la fede, i sacrifici fatti in difficili condizioni morali. Centinaia i caduti con oltre 400 nominativi, 587 i feriti, 54 i dispersi, centinaia le decorazioni al valore concesse e fra queste soltanto sette quelle elargite da americani e polacchi (nessuna da parte inglese). Non inferiori quelle meritate dai paracadutisti del nord che ebbero 621 caduti, 316 feriti e 620 dispersi e prigionieri, oltre 400 le decorazioni meritate fra cui oltre 80 croci di ferro di 1ª e 2ª classe a riconoscimento del valore da parte dell’alleato germanico sempre prodigo di elogi e ammirazione per i volontari italiani.
Cosa dunque restava della nostra scelta fatta non per tentare di vincere (la guerra era ormai perduta per la Germania) se non per salvare l’Onore d’Italia? Fu soltanto un ideale premio morale emerso luminoso fra tante amarezze e umiliazioni inferte dai vincitori; un valore simbolico, idealizzato che nessuno potrà mai portarci via o permettersi di discutere. Lo abbiamo conquistato duramente con innumerevoli sacrifici e se la Storia ha cambiato in parte, grazie alla RSI, il suo severo giudizio sull’Italia, lo si deve anche a chi fece di tutto per cambiarlo, sacrificandosi nel nome d’Italia, riscattandone l’Onore.
La piccola differenza fra NOI e Loro è tutta qui!
 
 
NUOVO FRONTE N. 197 Dicembre 1999. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

DOMUS